Messico

Il Pensiero Critico di fronte alla Idra Capitalista

Vedi anche:  Parole dell’EZLN al seminario “El Pensamiento Crítico frente a la Hidra Capitalista”

John Holloway

È un onore e una allegria essere qui. Sento che vorrei ballare ma non lo faccio e mi concentro su quello che ci hanno chiesto.

Parlerò del pensiero critico e cercherò di spiegare come uccidere la idra del capitalismo. Si tratta di questo: parliamo della idra non per spaventarci ma per pensare come sconfiggerla.

Il mito della idra ebbe un felice finale e anche noi dobbiamo arrivare a un finale felice.

Per pensiero critico intendo non il pensiero della catastrofe ma il pensiero che cerca la speranza in un mondo che sembra che questa già non esiste più. Il pensiero critico è il pensiero che apre ciò che è chiuso, che agita ciò che è immobile. Il pensiero critico è il tentativo di comprendere la tempesta e qualcosa di più. È capire che nel centro della tempesta c’è qualcosa che apre strade verso altri mondi.

La tempesta viene, o meglio è già qui. Già è qui ed è molto probabile che si andrà intensificando. Abbiamo un nome per questa tempesta che già si trova qui: Ayotzinapa. Ayotzinapa come orrore e anche come simbolo di tanti altri orrori. Ayotzinapa come espressione concentrata della quarta guerra mondiale.

Da dove viene la tempesta? Non dai politici – loro sono nient’altro che esecutori della tempesta. Non dall’imperialismo, non è il prodotto degli Stati e nemmeno degli Stati più potenti. La tempesta sorge dalla forma nella quale la società è organizzata. È espressione della disperazione, della fragilità, della debolezza di una forma di organizzazione sociale che ha già superato la sua data di scadenza, è espressione della crisi del capitale.

Il capitale è per definizione una costante aggressione contro di noi. È un’aggressione ci dice, tutti i giorni, “devi fare quello che fai in una certa forma, l’unica attività che ha valore in questa società è l’attività che porta all’espansione del profitto del capitale“.

L’aggressione che è il capitale ha una dinamica. Per sopravvivere deve subordinare la nostra attività ogni giorno sempre più intensamente alla logica del profitto: “oggi devi lavorare più rapidamente di ieri, oggi devi chinarti più di ieri“.

Con questo possiamo già vedere la debolezza del capitale. Dipende da noi, da quanto vogliamo e possiamo accettare quello che ci viene imposto. Se diciamo: “Scusa capitale, ma oggi vado a coltivare il mio terreno” oppure “Oggi vado a giocare con i miei figli“, o “Oggi mi dedicherò a qualcosa che abbia senso per me“, o semplicemente “Non ci sottomettiamo“, allora il capitalismo non può produrre il profitto che desidera, il tasso di profitto si abbassa, il capitale va in crisi. In altre parole siamo noi la crisi del capitale, il nostro rifiuto ad assoggettarci, la nostra dignità, la nostra umanità. Noi, come crisi del capitale, come soggetti con dignità e non come vittime, siamo la speranza che cerca il pensiero critico. Noi siamo la crisi del capitale e orgogliosi di essere la crisi del sistema che ci sta uccidendo.

Il capitale si dispera in questa situazione. Cerca tutti i modi possibili di imporre la subordinazione che richiede la produzione di valore, di plusvalore, di profitto: l’autoritarismo, la violenza, la riforma del lavoro, la riforma educativa. Introduce anche un gioco, una finzione: “se non possiamo ottenere il profitto che vogliamo, fingiamo che esista, creiamo una rappresentazione monetaria per un valore che non si è prodotto, espandiamo il debito per sopravvivere noi capitalisti e contemporaneamente cerchiamo di usare questo debito per imporre la disciplina che esigiamo. Questa espansione del debito è l’espansione del capitale finanziario come espressione della incapacità del capitale di imporre la subordinazione, espressione della violenta debolezza del capitale.

Ma questa finzione aumenta l’instabilità del capitale e inoltre non riesce a imporre la disciplina necessaria per il capitale. I pericoli per il capitale di questa espansione fittizia si rivoltarono con evidenza con il collasso del 2008 e, con questo, risulta sempre più evidente che l’unica uscita per il capitale è per mezzo della violenza dell’autoritarismo: tutte le trattative a proposito del debito greco mostrano che non c’è spazio per un capitalismo più morbido, l’unica strada per il capitale è la strada dell’austerità, della violenza. La tempesta che già c’è, la tempesta che viene.

Noi siamo la crisi del capitale, noi che diciamo “No!“, noi che diciamo “Basta con il capitalismo!” Noi che diciamo che è ora di lasciar perdere di creare il capitale, che bisogna creare altra forma di vita.

Il capitale dipende da noi, perché se noi non creiamo profitto (plusvalore) direttamente o indirettamente, allora il capitale non può esistere. Siamo noi a creare il capitale e se il capitale è in crisi è perché noi non stiamo creando il profitto necessario per l’esistenza del capitale. Per questo ci stanno attaccando con tanta violenza.

In questa situazione abbiamo realmente due scelte di lotta. Possiamo dire: “Sì, d’accordo, continuiamo a produrre il capitale, continuiamo a promuovere l’accumulazione del capitale, ma vogliamo migliori condizioni di vita per tutti, maggiore redistribuzione di salario“. Questa è la scelta dei governi e partiti di sinistra: di Syriza, di Podemos, dei governi del Venezuela e della Bolivia. Il problema è che, per quanto si possano migliorare le condizioni di vita sotto alcuni aspetti, per la disperazione stessa del capitale ci sono molte poche possibilità per un capitalismo più morbido.

L’altra possibilità è dire: “Ciao capitale, è ora che te ne vai, noi creeremo un altro modo di vivere, altri tipi di relazioni, tra noi umani e anche tra umani e altre forme non umane di vita, modi di vivere che non sono determinate dal denaro e dalla ricerca del profitto, ma dalla nostra propria decisione collettiva“. Può essere che, in queste decisioni collettive, si compiano degli errori, ma saranno i nostri errori.

Qui, in questo seminario, stiamo esattamente nel centro di questa seconda scelta. Questo è il punto di incontro tra zapatisti e curdi e le altre migliaia di movimenti che respingono il capitalismo, cercando di costruire qualcosa di differente. Tutte e tutti stiamo dicendo “È finita capitale, hai già fatto il tuo tempo, è ora che te ne vada, già stiamo costruendo un’altra cosa“. Lo esprimiamo in molti modi differenti: stiamo creando crepe nel muro del capitale e cercando che queste crepe si uniscano, stiamo costruendo il comune, stiamo comunizzando, siamo il movimento del fare contro il lavoro, siamo il movimento del valore d’uso contro il valore, siamo il movimento della dignità contro un mondo basato sulla umiliazione. Non importa molto come lo manifestiamo, l’importante è che stiamo creando qui e ora un mondo di molti mondi. Questo è l’unico modo di sconfiggere la idra. Se non vinciamo la idra andiamo verso l’annichilazione del pianeta.

Ma, abbiamo la forza sufficiente? Abbiamo la forza sufficiente per dire che non ci interessa l’investimento capitalista? Non ci interessa l’impiego capitalista? Abbiamo la forza per respingere totalmente la nostra attuale dipendenza dal capitale per sopravvivere? Abbiamo la forza per dare un “addio” definitivo al capitale?

Probabilmente non l’abbiamo ancora.

Molti di noi che siamo qui, abbiamo i nostri soldi o le nostre borse di studio che vengono dall’accumulazione del capitale o, in caso contrario, è molto probabile che, la settimana prossima, ritorneremo a cercare un impiego capitalista. Il nostro rifiuto del capitale è un rifiuto schizofrenico: vogliamo dirgli un addio definitivo e non possiamo farlo, ci costa molto lavoro. Non esiste purezza in questa lotta. La lotta per chiudere con la creazione del capitale è anche una lotta contro la nostra dipendenza dal capitale. Cioè, è una lotta per emancipare le nostre capacità creative, le nostre forze per produrre, le nostre forze produttive.

In questo stiamo, per questo siamo venuti qui. È questione di organizzarci, chiaro, ma non per creare una Organizzazione con la O maiuscola, ma delle organizzazioni con molteplici forme per vivere, da questo momento, i mondi che vogliamo creare.

Questa mattina i comandanti ci hanno chiesto concetti provocatori. Credo che il mio intervento si possa riassumere in tre provocazioni teoriche:

1) Il pensiero critico non è il pensiero che parla della catastrofe ma il pensiero che cerca la speranza dentro la catastrofe.

2) Noi siamo la crisi del capitale e orgogliosi di esserlo. Qualsiasi pensiero a proposito della tempesta inizia da qui.

3) L’unica forma per sconfiggere la idra del capitalismo è smettere di creare il capitale e dedicarci alla creazione di altri mondi. Mondi basati non sul denaro e il profitto, ma sulla dignità e l’autodeterminazione.

Suona facile. Sappiamo che non lo è. Come andare avanti, allora, come camminiamo? Domandando, per l’appunto, domandando e abbracciandoci e organizzandoci.

Tratto da:
Ass.ne Ya Basta! Milano

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