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Camminiamo per essere e siamo perché camminiamo

Il Movimiento de mujeres indigenas por el Buen Vivir prende forma dall’impegno di un gruppo di donne, di nazionalità qom, mapuche, quechua e guarany, coordinate dalla weichafe mapuche Moira Millán, decise a lottare per essere guardate e riconosciute come donne originarie, per far sentire la loro voce dopo secoli di oppressione e di violenza istituzionale, non solo razzista ma anche sessista, con l’intenzione di assumere come diritto il “Buen Vivir”, inteso come relazione di reciprocità fra popoli e natura che permetta di raggiungere l’armonia.

A partire dal 2013, hanno tenuto seminari partecipativi in ​​diverse parti del paese, in particolare nelle comunità in conflitto e in lotta per i propri diritti, diagnosticando la realtà che le circonda: il collasso della madre terra causato dallo sfruttamento illimitato del modello estrattivista, che saccheggia, depreda e inquina. Dialoghi e riflessioni orientati ad articolare una proposta non solo per le donne delle 36 nazioni originarie, ma rivolta a tutto il popolo argentino, con un invito a prendersi cura e ad ascoltare il territorio, nelle campagne e nelle città, perché la sopravvivenza è con la terra e dipende dalla terra: «quando ci prendiamo cura della Madre Terra, Ñuke Mapu, Pachamama, Qarate e Alba, Tekohá, lei ci riconosce, ci circonda, ci abbraccia ed è lei che si prende cura di noi».

«Il territorio per noi è tutto di tutto ed è la nostra essenza», con questa frase le mujeres indigenas condensano i valori che attribuiscono al territorio, individuato come spazio identitario, spirituale, come memoriale dei popoli e quello della continuità della cultura in cui scorre la vita, dalla relazione armonica tra le forze della natura e quella delle persone.

Nonostante nel corso degli anni siano state promulgate leggi e riforme della costituzione nazionale, firmate convenzioni internazionali per il riconoscimento dei diritti degli indigeni, quando si tratta di riconoscere le comunità e la loro presenza nei territori ancestrali, emergono burocrazia e ordinamenti che li mettono in difficoltà ostacolando ogni loro forma di espressione. Lo stato pretende atti di proprietà dei territori ancestrali, stabilisce regole su come e quali devono essere i delegati che dovrebbero parlare per i nativi e rappresentare il loro pensiero, ignorando che ogni popolo ha proprie forme di organizzazione, modo di pensare e spiritualità, tutti aspetti che secondo leggi e accordi dovrebbero essere rispettate.

Il movimento, formato da vari gruppi etnici, è fondato principalmente su quattro concetti condivisi che esprimono il pensiero che intendono divulgare.

  Il territorio è la nostra casa

Quando pensiamo alla nostra casa, la vogliamo in armonia, pulita e ordinata. Facciamo molta fatica per riuscirci, per stare bene e avere ciò di cui abbiamo bisogno per vivere. Per questo, in ogni casa, in tutte le case, si stabiliscono delle priorità perché la nostra casa deve identificarci e avere ciò di cui abbiamo bisogno per vivere in armonia. La prima cosa è che abbiamo bisogno di acqua, per noi, per i nostri animali e raccolti. L’acqua non può essere sprecata perché ciò che è sprecato o sporcato da alcuni influenza il diritto alla vita di altri. Le politiche statali danno in concessione a privati lo sfruttamento dell’acqua, ma tra tutti dobbiamo concordare politiche per l’uso controllato e la cura dell’acqua. Dobbiamo garantire acqua a tutti e pensare ai sistemi di stoccaggio.

Dobbiamo anche vedere come riscaldiamo e illuminiamo le nostre case, il che richiede la partecipazione al processo decisionale sulle politiche energetiche. Dobbiamo cercare energie alternative che non inquinino, siano accessibili a tutti e pretendere il rispetto degli accordi sui vertici climatici.

Il nostro territorio ci assicura il nostro cibo e senza territorio non esiste sovranità alimentare o possibilità di seguire una dieta variata. In campagna e in città dobbiamo avere spazio per avere case dignitose, per allevare i nostri animali, per coltivare ciò che mangiamo. Gli OGM ci fanno ammalare, bisogna creare banche di semi biologici. Il cibo confezionato non spiega cosa stiamo mangiando. Una casa non può essere mantenuta armoniosa, pulita e ordinata se il lavoro non è organizzato. I progetti della comunità aiutano a fare le cose, ma le mega-imprese disorganizzano tutto perché non si prendono cura delle persone o della biodiversità. Dobbiamo promuovere le costruzioni naturali, dare la priorità e preservare i progetti di identità. Pertanto, il territorio è lo spazio in cui convive tutta la vita. Devi garantire la sua sostenibilità; sapendo che le nostre azioni hanno conseguenze che si manifestano oggi e in futuro, e che dobbiamo agire con strumenti legali, politici e tecnologici, ma basati sulla nostra spiritualità.

Il territorio è anche il nostro corpo

Noi donne sappiamo che con i nostri corpi diamo la vita, ma che nei nostri corpi soffriamo anche la violenza. Quello che fanno con il territorio quando lo feriscono, lo fanno anche con i nostri corpi. È che la Madre Terra è una donna come noi.  Se lei è fertile, vitale e armoniosa, lo saremo anche noi. E se siamo fertili, vitali e armoniosi, anche la Madre Terra può esserlo.

In particolare i sistemi sanitari e di istruzione pubblica disciplinano i nostri corpi e le nostre menti. Ma se i nostri corpi e le nostre menti non stanno bene, se non sono ben curati e se non possono essere liberi, nient’altro può andare bene.

Come risultato della colonizzazione, c’è un “machismo” anche all’interno delle nostre comunità e talvolta i nostri stessi compagni ci prevaricano e impediscono l’utilizzo dei contraccettivi. Tuttavia, come donne siamo fertili non solo perché diamo figli, ma anche perché diamo idee, amore, saggezza che i nostri anziani ci hanno trasmesso. Identifichiamo e denunciamo la violenza razzista e sessista del patriarcato che stratifica la valorizzazione delle donne da un modello di bellezza “colonizzante-europeo”.

In questa società non siamo neppure riconosciute nella categoria delle donne. Ecco perché il “buen vivir” per il corpo passa attraverso recupero e valorizzazione della conoscenza ancestrale e la medicina tradizionale; esercitare il diritto sui nostri corpi secondo le nostre pratiche spirituali e culturali, sebbene non vi sia divisione tra spirituale e culturale. Non dare i nostri corpi contro la nostra volontà implica anche non rinunciare a decidere noi sullo spazio naturale di nascita. Lo stesso vale per le campagne di allattamento, la contraccezione naturale e vaccinazione per i nostri bambini. Le industrie della medicina invadono i nostri corpi e i nostri territori.

Molto di ciò che diciamo e ci aspettiamo dai sistemi sanitari, lo aspettiamo anche dall’istruzione pubblica. Non può essere che altri decidano per noi se i nostri figli e nipoti meritino un’educazione interculturale e bilingue.

Il territorio viaggia con ogni persona

Il territorio è di più che un luogo fisico e viaggia con noi. Ecco perché ci sentiamo parte e non proprietarie della terra nei diversi luoghi in cui ci troviamo, e dobbiamo comunicare spiritualmente con essa. Ecco perché ci impegniamo l’un l’altro e con i nostri progenitori in luoghi diversi. L’impegno per la nostra spiritualità è anche per noi un impegno politico che deve manifestarsi in diverse parti. Ecco perché chiediamo che i nostri spazi cerimoniali siano rispettati, che ci riconoscano spazi di espressione della nostra spiritualità anche se siamo lontani da dove siamo nati. Ecco perché non rinunciamo alla nostra identità negli spazi urbani. Neppure nelle carceri.

Con le migrazioni, diversi territori coesistono in un unico posto perché ognuno ha le sue radici. Ecco perché dobbiamo vedere come fare in modo che queste radici non vengano tagliate. Non esiste libertà di culto per i popoli nativi perché i nostri luoghi sacri non sono sempre rispettati o non abbiamo accesso ad essi. Nelle città c’è posto per chiese, templi e moschee, ma non ci sono luoghi sacri riconosciuti dove possiamo esercitare la nostra spiritualità. Nelle carceri la porta è aperta a certi culti, ma non ci è permesso esercitare lo stesso diritto, né essere visitati da coloro che frequentano la nostra spiritualità originale.

Il “buen vivir” non è solo per i popoli nativi ma anche per i non indigeni. Lo stato deve garantire politiche pubbliche che organizzino il modo in cui convivere bene, senza discriminazioni, nel rispetto delle pratiche culturali di coloro che condividono quello spazio. Le nostre date sacre devono essere di vacanza in modo che possiamo dedicarle completamente alla nostra spiritualità.

Il territorio è il luogo in cui si verifica l’autodeterminazione dei popoli

In ogni casa decidiamo come fare, come vivere. Alcuni vivono in campagna e altri nei villaggi ma, ovunque, dalle nostre case ci autodeterminiamo. Tale diritto non si pretende né si domanda, ma si esercita. Anche così, dopo tanti secoli di dominio, dobbiamo riconoscere che siamo disordinate nelle nostre case, con la nostra gente, a volte per paura, a volte perché altri dall’esterno dominano le nostre idee. Ma ogni casa, ogni comunità, ogni popolo è responsabile per regolarsi a seconda della propria filosofia ancestrale e modalità organizzative.

A loro volta, le nostre case condividono il cortile con altre case e tra tutti dobbiamo concordare su come mantenerlo pulito e ordinato, perché lo condividiamo. Non può essere che qualcuna se ne occupi e altri lo rovinino. Dobbiamo dedicarci in modo uniforme a questo. Ecco perché il “Buen Vivir” richiede di pensare a come conviviamo le nostre comunità come popolazioni native, ma anche a come conviviamo con i diversi membri della società non indigena, e come parliamo con lo stato e le imprese che cercano solo di guadagnare di più, senza preoccuparsi di nulla, di come danneggiano la natura e la vita delle persone. Vogliono vivere con certe cose e se le portano fuori così, ma anche noi abbiamo bisogno e vogliamo certe cose. Se nessuno dall’esterno può comandare nelle nostre case, fra tutte dobbiamo vedere come condividiamo il cortile, conviviamo e ce ne prendiamo cura, e cosa facciamo con coloro che lo sporcano e lo rompono.

Dobbiamo concordare di nuovo su come vogliamo vivere insieme rispettando il “buen vivir” di tutte.

È da questo modo di pensare che abbiamo ritenuto importante approfondire le riflessioni sul “buen vivir”, raggiungendo più donne native, ma anche più uomini dai nostri villaggi. Vogliamo anche invitare membri della società non indigena a esprimere e condividere con noi le loro opinioni e sentimenti. Abbiamo bisogno di un processo di consultazione, partecipazione, informazione e diffusione al fine di elaborare e proporre regolamenti e politiche che garantiscano e rendano efficace il “buen vivir”.