Kurdistan

C’era una volta in Anatolia

di Anna Irma Battino, Marco Sandi

“Dobbiamo abituarci a convivere con il terrorismo” ha detto un famoso editorialista turco, in un articolo pubblicato su un giornale filo-governativo dopo il nuovo, devastante, attentato che ha colpito Ankara il 13 Marzo.

La Turchia non può ulteriormente diventare un paese dove terrorismo e orrore sono la quotidianità: si presta attenzione principalmente agli attentati, ma non si volge lo stesso sguardo a tutto ciò che realmente succede in Anatolia, questo perché Erdogan non ha ancora scoperto tutte le sue carte; in quel caso vorrebbe dire che il suo cerchio magico si è definitivamente realizzato, ossia riuscire a far passare “il suo terrorismo” come norma.

Le emozioni espresse dalla popolazione hanno, però, dimostrato un lieve cambio di rotta. Se prima nella società aleggiava una sorta di rassegnazione apparente, ora la Turchia potrebbe essere vicina a un punto di rottura: anche nella capitale si cominciano a scorgere fugaci attimi di ribellione e intrepido dissenso rispetto al lavoro del governo. Non solo quello che succede nel profondo sud-est del paese, in quello che è il grande tema della “ribellione” del popolo curdo, ma anche nella Turchia più occidentale, europea e a noi più vicina, si comincia ad annusare un senso d’insofferenza rispetto allo strapotere che l’AKP ha concentrato nelle sue mani.

Quello di domenica è il terzo attentato che Ankara subisce nel giro di cinque mesi, e anche solo dal lato più umano, di perdita e di sicurezza, c’è chi comincia a non accettare – seppur in maniera molto cauta – questo clima di tensione che in primis viene percepito dalla velocità con la quale scatta l’ormai consueto divieto di trasmettere immagini dell’attentato da parte dell’autorità radiotelevisiva e, subito dopo, dal blocco temporaneo dell’accesso ai social networks.

Da una parte il governo ha bisogno di raccogliere in fretta e furia la solidarietà internazionale, compresa quella del Papa, di trovare un colpevole e di cogliere l’occasione per inasprire i massacri che sta compiendo in Kurdistan; dall’altra quest’ultimo attentato – che ha colpito più dei due precedenti il cuore pulsante della civiltà turca – e il repentino silenziamento dei media hanno cominciato ad insinuare degli interrogativi labili, ma che forse cominciano a diffondersi tra la popolazione. Senza essere banali, e nemmeno sentimentali, il blocco dei social media di fronte a persone che cercano disperatamente notizie, ha del grottesco.

Nessun gruppo ha rivendicato, ad ora, l’attentato che ha mietuto 37 vittime. I sospetti sono in un primo momento ricaduti sul TAK – un gruppo oltranzista composto dai fuoriusciti dal PKK al tempo dei negoziati di pace con il governo e autore dell’attentato ai bus militari dello scorso 17 Febbraio. Le autorità turche, intanto, hanno dichiarato di aver identificato una dei due attentatori: una ragazza di 24 anni proveniente da Kars, che si suppone si sia unita al PKK nel 2013.

Va chiarito che, nella sua linea d’azione, il PKK ha sempre negato di voler colpire obiettivi civili e i civili in sé, poiché individua il proprio nemico nello Stato turco e i suoi apparati – Polizia ed Esercito su tutti – in quanto perpetuatori delle violenze sul popolo curdo.

Nello stesso momento in cui l’ennesima bomba ad Ankara shockava l’opinione pubblica, l’Esercito turco, coadiuvato dalle Forze Speciali della Polizia, ne approfittava per mettere sotto coprifuoco a tempo indeterminato le città di Yuksekova e Sirnak, nel profondo Est, in Kurdistan Bakur. Inoltre, la Turchia sì è impegnata nell’operazione militare contro lo Stato islamico in Siria ma, allo stesso tempo, sta bombardando anche le milizie curde dell’Unità del popolo (Ypg) in Siria e le postazioni del PKK nel sud-est della Turchia e nel nord dell’Iraq.

Il commento del co-presidente HDP Demirtaş a riguardo è molto esemplificativo: “Nuove operazioni in Bakur significano nuovi massacri”.

Ma quelle città non sono il solo luogo dove si consuma la violenza, oggi e nelle prossime settimane. Da quando la scorsa estate è collassato il cessate-il-fuoco tra PKK e Governo turco, i politici curdi – e la popolazione curda in generale – sono stati oggetto di numerosi soprusi in tutto il paese. Le autorità stanno pensando e agendo per revocare l’immunità parlamentare a Demirtaş e numerosi altri membri dell’HDP, colpevoli di accusare apertamente Erdogan e il suo operato.

Negli ultimi giorni diversi gruppi della galassia della sinistra radicale turca hanno siglato un patto d’intenti, che ha come obiettivo confinare e intaccare lo strapotere che il partito guida del Paese ha concentrato nelle sue mani; un obiettivo ambizioso, anche se appare come destino già scritto la possibilità che succeda il contrario. Si evince dalle stesse parole di Erdogan, che da sé ha deciso di cambiare la definizione di terrorismo. Terrorista non è più solo chi organizza, cerca di portare a termine o riesce nell’intento di uccidere qualcuno o compiere una strage per ragioni politiche: terrorista è chiunque si opponga al suo volere, sia esso un deputato avversario, un giornalista, un attivista per i diritti umani.

I massacri in Turchia sono diventati qualcosa di prevedibile e, anche se fosse fondata l’ipotesi che gli ultimi due attacchi ad Ankara siano stati compiuti da movimenti curdi, la situazione potrebbe cambiare solamente attraverso le parole e le azioni di un’unica persona: Recep Taypp Erdogan.  La riapertura del dialogo, con Öcalan come protagonista, potrebbe portare a una distensione nelle ostilità e alla fine dell’uso della violenza per contrastare altra violenza. Questa volontà, combinata con la fine delle ostilità in Kurdistan, potrebbe essere un primo punto per la riapertura del tavolo negoziale tra PKK e Turchia.

Il problema sostanziale è che non vi è alcun interesse ad aprire dialoghi interni: sono piuttosto privilegiati quelli con gli alleati internazionali che, al momento, non si permetterebbero mai di criticare né tantomeno minare lo strapotere del Presidente Erdogan e gli ultimi accordi con l’Unione Europea rispetto alla gestione dei flussi migratori lo dimostrano.

La Turchia sanguina: perde sangue a Diyarbakir e Cizre, come ad Ankara in egual maniera, e non ci stiamo a prestarci alle boutade dell’ultimo secondo del “Io sono Ankara”, non si può essere solidali in toto con la Turchia e dichiararsi tout-court contro ogni genere di terrorismo. Non possiamo farlo se il principale colpevole di questa situazione è un eccentrico Erdogan, che ormai accecato da troppo odio e troppo potere gioca a Risiko nel suo paese contro il suo paese. La repressione assume oggi in Turchia diverse sfaccettature, chi non soddisfa i vezzi e i capricci del Sultano la “paga” e il prezzo diventa sempre più caro.

Bir zamanlar anadolu’da: c’era una volta in Anatolia, quello che c’è ora non si può raccontare!