Wallmapu

Decolonizzazione e consapevolezza del popolo mapuche.

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Dalla comunità Pillan Mahuiza, Wallmapu (Patagonia Agentina), alcune riflessioni del lonko Mauro Millan sulla presa di coscienza di un popolo la cui cultura si è formata ben prima dell’occupazione degli ultimi 130 anni.

Decolonizzarci non è solo conoscere e interrogare chi ti ha colonizzato, è anche conoscere e interrogare noi stessi. Significa chiederci quanto della nostra storia sia racconto del potere e quanto sia memoria dei nostri predecessori, con quali condizionamenti – e con i valori di chi – noi ragioniamo. In che modo possiamo considerarci autonomi, un Popolo e liberi, quando il nostro territorio è occupato da altri? Ci possiamo immaginare come Mapuche senza essere soggetti ai programmi degli Stati?

Quando pensiamo a noi stessi come argentini o cileni, cosa stiamo accettando? In qualche modo, permettiamo loro di governare le nostre vite e il destino del nostro popolo con la logica degli Stati. Se pensiamo a noi stessi come a un Popolo sconfitto, è altamente improbabile che saremo in grado di progettare il nostro futuro nei nostri territori, recuperare e tornare ad esercitare il nostro modo di vivere.

La cosiddetta “sconfitta” ha un retroscena storico che non sarà mai raccontato dai vincitori del momento. Questo retroscena parla di secoli di lotta e di difesa del nostro territorio e solamente di 130 anni di occupazione da parte degli Stati. Noi ascoltiamo questi racconti di resistenza, di difesa e di lotta per il wallmapu [territorio mapuche, ndt] come esperienze vissute dalle nostre nonne e nonni; abbiamo intuito che se siamo sopravvissuti a quella guerra è stato perché la principale alleanza del popolo Mapuche è stata con la natura. Siamo convinti che queste esperienze di sopravvivenza, di lotte e di alleanze abbiano nutrito l’eredità che tutte le generazioni di nuovi Mapuche ricevono. Relazionarci con il nostro ambiente e ristabilire le alleanze che i nostri antenati hanno stretto con questo territorio è il nostro mandato, intrinseco nel kimun o sapere ancestrale. Facciamo fronte a questo impegno e lo basiamo sull’applicazione delle leggi che sono state emanate dalla natura (admapu) e che il nostro Popolo ha decodificato, convertendo questo percorso in kimun. I nostri antenati non hanno ceduto e noi di conseguenza non lo faremo. Quando recuperiamo territorio, quando esercitiamo pienamente la nostra spiritualità nel territorio liberato, quando ci opponiamo alla devastazione delle foreste e dei fiumi, quando sabotiamo progetti estrattivisti o facciamo uso del nostro diritto all’autodifesa o quando pratichiamo il controllo territoriale, stiamo applicando l’admapu [leggi della natura,ndt].

Che reazione hanno gli Stati di fronte a un popolo che si lega direttamente al proprio territorio? Le nostre sintonie con la natura oggi stanno generando un’intensificazione delle politiche repressive, della militarizzazione del territorio ancestrale, della persecuzione, dell’attività giudiziaria, della criminalizzazione, delle carcerazioni e degli omicidi. Questa reazione degli Stati cerca di tutelare i progetti di saccheggio ed estrattivismo nel nostro territorio (silvicoltura, petrolio, estrazione mineraria, dighe, controllo delle acque). Nonostante questo scenario di violenza estrema generata dagli Stati, le nostre alleanze con il wallmapu si rafforzano sempre più.

Quando recuperiamo territorio andiamo con l’intento di ascoltare e percepire se quel territorio ci accetterà o meno. Raggiungiamo questa comunicazione con la pratica e l’esercizio della nostra spiritualità. Così nasce l’alleanza, questo impegno di protezione reciproco. Le alleanze cominciano a consolidarsi quando apriamo un’interazione, ma una volta stabilito quel legame, quel vincolo non può essere dimenticato, o l’alleanza comincerebbe a indebolirsi. L’alleanza con la natura è alla base della nostra lealtà politica, perché in questo legame si fonda la nostra organizzazione sociale all’interno e tra pu lof [comunità, ndt]. La separazione dalle forze del wallmapu (pu ñen, pu newen, pu futacheyem, pu chiway) ci lascia esposti all’ideologizzazione estranea che pone l’essere umano come padrone e proprietario, e il territorio come una risorsa da sfruttare.

Quando suggelliamo l’alleanza nello spazio, il territorio stesso comincia ad emanare la sua memoria o a diffondere la sua memoria su di noi. Allearci con il territorio, con le forze che lo compongono, è l’asse che mobilita e attiva tutta la nostra cultura, la nostra spiritualità, la nostra filosofia, la nostra ideologia, la nostra lingua.

La memoria è una memoria collettiva, reciproca, nutrita non solo dalla società umana, ma anche dalle forze territoriali. Quando si ha la sensazione di aver perso la memoria, è perché applichiamo una logica che non ci appartiene. Il territorio ci apre un percorso di recupero, comunica, riversa la sua memoria ancestrale attraverso le sue colline, laghi, fiumi, lagune, ruscelli. Nel territorio intervengono i nostri antenati per farci sognare la memoria.

Il colonizzatore – in modi diversi nel corso del tempo – ha prodotto una realtà (una realtà ufficiale) e l’ha utilizzata per costruire l’immagine dell’indio e, in questa parte del mondo, la figura del Mapuche. Per questo dobbiamo cominciare a chiederci: quanto di questa realtà abbiamo assimilato in modo naturale?

Renderci conto che gli Stati si sono aggiudicati l’esclusiva di raccontare chi e come siamo è un primo passo verso la liberazione.

Siamo in grado di capovolgere non solo l’appropriazione del territorio ma anche l’appropriazione della nostra storia; dobbiamo affrontare i tristi racconti delle nostre nonne, nonni, madri e padri, trasformare quelle storie in un percorso di esperienze. Esperienze come strumenti da utilizzare di fronte alle avversità, come chiave che aprirà la storia di lotta e di resistenza di un Popolo che non si è mai arreso.

Siamo quei tristi racconti delle nostre nonne e nonni, siamo quei ricordi strappati alle nostre madri e ai nostri padri, siamo le e gli abitanti delle città, formattati da un codice a barre che sembra impossibile piegare.

Quella storia di almeno tre generazioni era disseminata di racconti sui campi di concentramento, l’umiliazione dell’identità e l’essere dei reietti nella città. Ma quelle memorie sono solo i segni, i segnali che i nostri antenati hanno lasciato perché potessimo leggerli in qualsiasi momento.

Non dobbiamo vedere solo le impronte, ma capire perché sono lì, perché questi racconti sono stati conservati. Perché non è mai mancata la speranza, non si è mai rassegnata la libertà.

I racconti tristi di nonne e nonni sono anche epici in una storia di lotta e di sopravvivenza, le madri e i padri che hanno perso i loro ricordi hanno sviluppato la capacità di indicarci come recuperarli, e che vivere in città non è mai stata un obiettivo.

Negli ultimi decenni è stata tracciata una linea ideologica, filosofica e politica che sarebbe stata discussa e applicata alle quattro estremità del wallmapu. Quella linea è nata come esigenza immediata perché dovevamo conoscere e affrontare il grado di colonizzazione che ci stava attraversando. È emersa da grandi trawun [assemblee, ndt] dallo scambio intergenerazionale e dalla guida di longko, machi, pillan kushe, weychafe, ngpin [figure significative nella società mapuche, ndt].

Attraverso la reciprocità della parola abbiamo saputo diagnosticare noi stessi. Quanto della cultura imposta aveva invaso i nostri principi ideologici ancestrali? Quella domanda oggi è diventata la nostra grande sfida: liberarsi.

Le conseguenze derivate dall’invasione del wallmapu hanno avuto un impatto sulla storia delle famiglie e dei lofche [comunità, ndt]; il risutato pose i Mapuche a sopravvivere in territori ristretti e, subito dopo, nelle periferie delle città che stavano nascendo.

Tuttavia nulla di ciò che è stato imposto poté fermare la diffusione del principio elementare dell’essere Mapuche: ritornare. Nel momento in cui gli Stati erigevano recinzioni, confini e frontiere, il nostro popolo si apprestò a ritornare al territorio ancestrale. L’armatura che regge la nostra identità con il territorio ha ideologizzato quella decisione. Il recupero territoriale inizia quando prendiamo coscienza del nostro io collettivo, di chi siamo in questo viaggio attraverso il territorio e della consapevolezza che ne facciamo parte. Insomma, il recupero territoriale inizia molto prima che si concretizzi come atto.

Una società piramidale non sarebbe una risposta alle esigenze della mapu. Poiché siamo un popolo oppresso, crederci parte del progetto dello Stato oppressore trasforma il nostro futuro in una tragedia.

Questo è il motivo per cui il nostro popolo non può lasciare il proprio futuro nelle mani di una manciata di funzionari pronti a obbedire ed eseguire le politiche statali e ad allontanarsi da un programma autonomo del popolo mapuche.

Le società umane piramidali non sono logiche congruenti con la natura, così la pensavano i nostri antenati. Non esiste un ruolo che abbia la voce assoluta o il comando, ogni autorità ancestrale svolge la sua funzione in un contesto strettamente collettivo, comunitario e reciproco. Questo ci permette di capire il nostro ambiente, la delicatezza di Itrofillmogen (tutte le vite), le loro esigenze e le nostre.

Le società che invasero riempirono la loro storia di metodi e forme di controllo innovativi. Questi sistemi di controllo – provenienti principalmente dall’Europa – basano la loro forza sull’appropriazione e sull’alimentazione di un potere “perpetuo” chiamato economia. I sistemi capitalisti – e i loro supposti contrari, come i comunismi – discutono solo della forma di distribuzione senza mettere in discussione la supremazia umana su tutta la natura. Lo sfruttamento e il saccheggio della terra privilegiano una piccola élite mondiale che cerca di contenere tutti gli altri, i miliardi di persone immerse nella povertà e nella fame.

Nell’arco di questi ultimi trent’anni abbiamo internazionalizzato la nostra lotta come Popolo e inserito nei nostri progetti libertari programmi e lotte di diversi Popoli del mondo. Abbiamo avviato un processo di autocritica interrogandoci sulle forme di oppressione che originiamo all’interno del nostro Popolo, in particolare verso le pu domo (donne). Abbiamo imparato a essere solidali con le/i combattenti di tutto il mondo di fronte agli abusi degli Stati e alle loro politiche xenofobe di persecuzione e di morte. Questo desiderio di libertà ci ha fatto sviluppare una capacità ulteriore: identificare l’oppressore nelle sue diverse manifestazioni.

Allearci con la natura è il fondamento costitutivo della nostra società, perciò il recupero del territorio è oggi un fondamento ideologico. In questo contesto di lotta globale, le alleanze con quelle parti della società che condividono il nostro pensiero sono una capacità che rafforza e allarga l’orizzonte del confronto con questo sistema. Non è una novità per il popolo Mapuche creare alleanze con altri settori della società, i nostri kuyfikecheyem [predecessori, ndt] le hanno portate avanti per più di tre secoli. Quando il territorio è condannato a morte, gli antagonismi si allargano ma si rafforzano anche le alleanze.

Ogni società ha la sua natura. Alcune società generano anche pensieri di libertà e resistenza. E in altre crediamo che la rivoluzione sarà insieme con la natura (come principale alleata) o non sarà.