Messico

“Si me matan”: femminicidi e violenza di genere all’università

di Caterina Morbiato* – Lesvy Berlín Osorio: #SiMeMatan – Sono le due di pomeriggio del 5 maggio. Il corteo inizia a muoversi dalla facoltà di Scienze Politiche lungo, rabbioso. Avanza lento e grida forte. La testa è formata da un contigente di sole donne, gli uomini sono ammessi ma devono restare nella parte posteriore. Quando svolta verso la zona delle facoltà scientifiche il passaggio si restringe e i corpi si comprimono, il passo rallenta mentre i tamburi della batucada e centinaia di lingue pestano nelle orecchie: “non una di più: non una assassinata in più! Non è stato un suicidio: è stato un femminicidio! No no no, non è un caso isolato: i femminicidi so-no-un-cri-mi-ne-di-Sta-to!” Da quanto gli stessi slogan? Ci sono momenti in cui la loro interminabile ripetizione provoca uno smarrimento profondo – Applaudite! applaudite! non smettete di applaudire che il maledetto machismo deve morire! – e la sensazione che le cose non potranno mai migliorare può diventare devastante. La notte tra il 2 e il 3 di maggio Lesvy Berlìn Osorio è stata assassinata nell’area della facoltà di Ingegneria dell’Università Nazionale Autonoma del Messico (UNAM). Il suo corpo esanime è stato ritrovato legato a una cabina telefonica con il cavo dell’auricolare. Secondo i primi accertamenti Lesvy sarebbe rimasta fino alle quattro di notte nelle strutture dell’università in compagnia di alcuni amici e del suo ragazzo. I due si sarebbero poi separati dopo un litigio.

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“Il giorno dei fatti la coppia si era riunita con vari amici nell’università, dove si sono alcolizzati e drogati”

“La madre e il fidanzato assicurano che lei non studiava più dal 2014 e aveva smesso di frequentare il CCH Sur (scuola superiore) dove era ripetente in varie materie”

“Il fidanzato, con cui viveva la vittima, ha informato che lavora nell’area amministrativa della Preparatoria 6 (scuola superiore)”

A poche ore dall’identificazione di Lesvy, la Procura di Città del Messico provvede a diffondere questi tweet: non informazioni rivelanti sugli eventuali sviluppi dell’indagine, ma dettagli della vita personale della vittima. Dettagli che vengono utilizzati per spiegare (legittimare?) il delitto, facendo leva su quell’universo di stereotipi e pregiudizi di cui si nutrono le costruzioni del genere. Dettagli che propiziano nuove forme di aggressione, che esibiscono e vittimizzano Lesvy  per una seconda volta: una dinamica fin troppo comune nei casi di femminicidio. Varie testate giornalistiche e media digitali si affrettano a replicare i dati diffusi dalla procura anche se poi c’è chi farà autocritica, chiedendo scusa per la mancanza di professionalità e sensibilità. Lo stesso farà la Procura, la cui responsabile dell’area comunicazione si dimette dopo pochi giorni.

In reazione ai tuits centinaia di donne iniziano a diffondere l’hashtag #SiMeMatan (Se mi uccidono), elencando una serie di dettagli della loro vita personale per cui dovrebbero, secondo la logica imbastita dalla retorica della procura,
meritarsi la morte: se mi uccidono è perché uso gonne corte e scollature, perché mi ubriaco, perché mi piace viaggiare da sola, perché sono bisessuale, perché dico NO quando lui vuole che sia un si. Se mi uccidono è per i miei tatuaggi, perché vado a far festa con le mie amiche, perché ho avuto relazioni prima del matrimonio e ho debiti con la banca.
Non importa che siano messaggi grondanti dolore e rabbia, non mancano le varie soggettività maschili che colgono l’occasione al volo per far parlare di sé, stravolgendo il significato della protesta: “#SiMeMatanrivivo”, scrive in un tweet Pascal Beltràn del Rìo, direttore della testata nazionale Excelsior, mentre Fernando Belaunzaràn, politico del Partito della Rivoluzione Democratica (PRD), esordisce: “#SiMeMatan che sia per amore”. Entrambi si commentano da soli.

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Centinaia di donne e decine di uomini sono riunite intorno a una cabina telefonica. Qualcuna legge delle testimonianze in ricordo di altre donne uccise: la voce spesso si impiastra di lacrime e muco e allora cori energici – Non sei sola! Non sei sola! – si innalzano per abbracciare simbolicamente chi non ce la fa a contenere l’emozione. C’è un altare improvvisato con candele e fiori e cartelli rosa: Lesvy è stata ammazzata qui. Aveva 22 anni, era una accanita lettrice e amava le lingue: parlava inglese, catalano, rumeno. Era figlia di madre messicana e padre guatemalteco. I risultati della sua autopsia hanno confermato segni di tortura e la morte per strangolamento: è stato un femminicidio e non un suicidio come inizialmente, per quanto inverosimile possa suonare, avevano ipotizzato le autorità.

 

Caso Perelló: se non c’è cazzo, non c’è stupro

È il 28 di marzo 2017 e dalle frequenze di Radio UNAM, la stazione radiofonica dell’Università Nazionale Autonoma del Messico, la voce ruvida di Marcelino Perelló Valls inonda l’etere. È l’ora di “Sentido Contrario” (Contromano), la trasmissione che conduce da quasi sedici anni.
“Lo stupro implica necessariamente il cazzo. Se non c’è cazzo, non c’è stupro. Cioè: con pali di scopa, dita e vibratori non esiste stupro. Semmai c’è una violazione della dignità, ma di queste ce n’è di vario tipo. Per esempio se ti spalmano in faccia merda di cavallo”. Per quasi tre ore, il conduttore radiofonico nonché ex lider del movimento studentesco del ’68 e accademico dell’UNAM, passa in rassegna diversi casi di abuso sessuale avvenuti di recente nel paese, facendosi beffe delle donne coinvolte e ridicolizzando le loro azioni di denuncia.

“Succede soprattutto con le donne fighe, e non c’è nemmeno bisogno di strappargli i vestiti di dosso: il fatto è che gli piace. Ci sono donne che hanno avuto un orgasmo solamente quando sono state violentate. È registrato nella letteratura specializzata. Ti hanno stuprato e quindi godi”.
Tra una risata e l’altra si impegna a commentare la violenza sessuale commessa all’inizio del 2015 ai danni di Daphne Fernández (minorenne al momento dei fatti) da parte di quattro giovani, figli di influenti imprenditori e di un politico dello stato di Veracruz. Il giudice che segue il caso, che in Messico è conosciuto come il caso de Los Porkys, ha da poco assolto uno degli indagati dal delitto di pederastia: a suo giudizio l’imputato avrebbe agito “senza lascivia e senza l’intenzione di arrivare alla copula vaginale, orale, né anale”, quindi l’abuso sessuale non sarebbe pienamente dimostrabile.

Secondo il giudice la “sola” introduzione delle dita nella vagina della ragazza e il palpeggiamento dei seni non sarebbero elementi sufficienti per comprovare l’abuso sessuale e poco importa se l’articolo 190 quater del Codice Penale dello Stato di Veracruz prevede una condanna fino a dieci anni per chi “senza arrivare alla copula o all’introduzione vaginale, anale o orale, abusi sessualmente di un bambino, bambina o adolescente o lo obblighi, lo induca o lo convinca a eseguire un qualunque atto sessuale in circostanze pubbliche o private”. Poco importa perché è l’impunità a dettar legge, specie quando gli imputati sono persone che si muovono nelle alte sfere del potere, ancor di più quando si tratta di casi in cui le vittime sono donne.

Non è la prima volta che Perelló si diletta in quest’attività di cui sembra andar piuttosto fiero. Nel suo account twitter il professore si è più volte dichiarato uno “stupratore compulsivo” e anche ora ci tiene a dire la sua, facendo inoltre sfoggio di una solida formazione in materia. La “letteratura specializzata” – dice – gli dà ragione: “se non c’è cazzo, non c’è stupro”.
“Se ti offende tuo figlio o tuo marito, allora sì che è un casino. Se ti offende qualcuno che rispetti. Ma se ti offende un coglione per la strada, o anche se ti introducono le dita: l’unica preoccupazione è se erano pulite o no”.

“Ma allora, perché ti metti le gonne corte? Perché ti si vedano o non ti si vedano le gambe? La prossima volta che esci in strada mettiti un’armatura, figlia di puttana!”

Questa volta però il fine esercizio ermeneutico del professore provoca un’ondata di disgusto nelle reti sociali e diventa presto trending topic. Tra le tante voci che si alzano ripudiando la violenza verbale dell’accademico c’è chi decide di non fermarsi ai tuits: il 17 di aprile un gruppo di femministe consegna alla UNAM una petizione firmata da quasi 12mila persone per esigere l’allontanamento di Perelló dalla Radio e la sua destituzione dall’incarico di docente che svolge presso la Facoltà di Scienze.
Passano i giorni e il 5 di maggio la UNAM annuncia che dal 26 di aprile Marcelino Perellò Valls non lavora più per l’università. Il 26 di aprile Perellò ha effettivamente smesso di lavorare alla UNAM, ma dopo aver lui stesso data per terminata la sua relazione con l’università: manovra che gli ha permesso sottrarsi alle evenutali sanzioni. Non solo la comunicazione da parte dell’università arriva dieci giorni dopo, ma le querelanti vengono informate della notizia leggendola nei media e non attraverso una risposta ufficiale dell’istituzione.

 

Violenza all’università

Anche di fronte al femminicidio de Lesvy Osorio la reazione della UNAM (Universidad Nacional Autonoma de México, la più grande dell’America Latina) è stata tiepida: nel comunicato ufficiale diffuso subito il ritrovamente del cadavere della ragazza si leggeva che l’università “ripudia ogni tipo di illicito commesso” all’interno delle proprie installazioni. Ora, riferirsi a un assassinio come a un illecito non sarà giuridicamente erroneo però genera una minimizzazione del delitto. Significa impiegare un eufemismo per nominare una violenza grave che, inoltre, succede con preoccupante frequenza dentro gli spazi universitari. Di fatti quello di Lesvy non è il primo femminicidio che vede coinvolta una delle più importanti università del paese, solo nel 2002 in meno di un mese vennero ammazzate due ragazze poco più che ventenni: Areli Osorno Martìnez, 26 anni, studentessa di Ingegneria, assassinata da un altro studente e Cristel Estibali Alvarez, 21 anni, studentessa di Scienze, assassinata anche lei da un compagno di studi.
L’area delle facoltà scientifiche è stata segnalata come una delle dipendenze dell’università in cui si registrano più casi di molestie. Il passato 19 aprile, appena due settimane prima che Lesvy fosse ritrovata strangolata con un cavo del telefono, un professore della UNAM aveva denunciato attraverso le pagine del quotidiano nazionale La Jornada l’insicurezza e gli abusi che vivono sulla propria pelle le studentesse e ogni donna in generale che transitano nella zona delle facoltà di Ingegneria e Chimica.

Femminicidi, molestie, violenze sessuali e psicologiche, mobbing, ricatti sessuali, minacce: i casi di violenza di genere che si consumano all’interno del perimetro universitario sono svariati e numerosi. Inutile dire che nella maggior parte degli episodi le vittime sono donne e che spesso i soggetti responsabili delle violenze sono docenti che abusano della propria posizione di potere, proteggendosi dietro alla logora maschera di ottimi docenti, luminari, uomini dalla traiettoria accademica brillante.
Nel 2013 la Commissione Nazionale per i Diritti Umani (CNDH) ha per la prima volta emesso una raccomandazione nei confronti dell’università per il caso di un professore di una delle scuole superiori appartenti al sistema UNAM: il docente aveva cercato di ricattare sessualmente una sua alunna minorenne in cambio della promessa di aumentarle la valutazione di un esame.

Anche se esiste il diritto a un accesso trasparente alle statistiche degli abusi, per cui chiunque può presentare un richiesta formale ai rispettivi organismi universitari, una semplice ricerca in rete apre le porte al caos. I dati sono confusi e alle volte contradditori. Questo può essere dovuto in parte al fatto che la UNAM si è dotata solo in tempi recenti, nell’agosto del 2016, del Protocollo di Assistenza ai Casi di Violenza di Genere, e che questo meccanismo di prevenzione, attenzione, sanzione e gestione dei casi di violenza non stia funzionando ancora con celerità e precisione. D’altra parte i dati duri non sono mai degli strumenti neutrali e il loro utilizzo, a seconda delle circostanze, può essere un’arma a doppio taglio: una cifra “pulita” e presentata con rigore parlerebbe di un’istituzione che si impegna a fare i conti con la situazione di crisi che sta vivendo, ma potrebbe anche mostrare l’ambiente universitario come un nido di violenze, attentando alla sua immagine pubblica.

Detto ciò è utile ricordare che, per quanto le stime possano diventare accurate, queste solitamente non rispecchiano la totalità delle violenze dato che molte non vengono denunciate per paura di rappresaglie, per vergogna del possibile stigma sociale e anche per la complessità dei procedimenti legali, spesso farraginosi e sfiancanti.
Secondo dati diffusi dall’Unità di Assistenza e Monitoraggio di Denunce della UNAM dal 2003 al 2016 si sono registrate 396 denunce di diversi tipi di violenza di genere: molestie, abuso, discriminazioni, atti immorali; altri dati sollecitati alla stessa Unità e resi pubblici a marzo 2017, riportano come dal 2013 al febbraio 2017 la suddetta entità abbia registrato 73 denunce: 38 di queste per molestie, mentre 35 per abuso sessuale; in 50 casi i responsabili sono stati sottoposti a una non meglio specificata “sanzione”. Un’altra richiesta di informazioni, presentata questa volta da un’accademica della facoltà di Scienze Politiche, riporta come solamente da maggio 2015 a maggio 2016 l’UNAM abbia ricevuto 85 denunce di violenza contro le donne.

Secondo un altro report presentato dall’università solo nel primo mese e mezzo di funzionamento del Protocollo di Assistenza ai Casi di Violenza di Genere ci sarebbe stato un aumento esponenziale delle denunce: 70 in soli quarantacinque giorni. Il Protocollo è stato lanciato in concomitanza con l’adesione della UNAM alla campagna globale della ONU #HeForShe, progettata per promuovere l’uguaglianza di genere a partire dal coinvolgimento degli uomini in quanto “agenti di trasformazione” e “alleati dei diritti delle donne”. Il programma ha raccolto numerose critiche da parte di gruppi femministi tanto per il binarismo di genere che ripropone, cioè un he e un she in cui si dovrebbero riconoscere senza esitazioni tutte le persone, come per la necessità di presentare in maniera acritica gli uomini come soggetti alleati e salvatori delle donne.

Dal canto suo, anche il Protocollo è stato duramente criticato: come sottolinea, ad esempio, il collettivo universitario No Están Solas, sono anni che le femministe si battono per ottenere una riforma della legislazione universitaria in materia di violenza di genere, ma il tanto atteso Protocollo non sembra aver tenuto troppo in considerazione il lavoro svolto fino ad ora. Opacità e confusione continuano a caratterizzare l’operato delle autorità universitarie.

Tra i punti critici del documento il collettivo segnala la mancanza di sanzioni specifiche ed esplicite per i diversi tipi di delitto; l’assenza di misure di riparazione del danno della vittima; l’obbligo di confidenzialità, un concetto confuso che potrebbe arrivare ad ostacolare la denuncia a livello sociale della violenza subita. Il Protocollo inoltre prevede sanzionare chi deposita denunce false, ma non chiarisce quali siano i procedimenti e i criteri attraverso cui si definirebbe se una denuncia è vera o falsa; allo stesso modo richiede di videoregistrare le testimonianze delle vittime, senza però giustificarne la necessità. Oltre a produrre un analisi critico del Protocollo, No están Solas ha anche accusato l’università di occultare informazioni rilevanti e di minacciare diverse docenti che aiutano i sostengono i processi di denuncia. Evidentemente la dotazione di un Protocollo per trattare le denunce di chi soffre un abuso non è una misura sufficiente, specie se non viene accompagnata da un percorso integrale che includa, ad esempio, una formazione in materia di genere rivolta al personale amministrativo e più in generale agli integranti della comunità universitaria.

 

Patrimonio e censura o della normalizzazione dell’orrore

La UNAM rientra tra le 50 migliori università del mondo. In Messico è considerata l’alma mater per eccellenza, culla di cultura, libertà e rispetto, ed è uno dei primi motivi d’orgoglio nazionale. Che sia un luogo consagrato alla ricerca non assicura che sia immacolato e includente. Crederlo sarebbe un’illusione. Come buona parte delle università del mondo anche la UNAM è uno spazio marcato da dinamiche di esclusione, razzismo, misoginia e machismo: le violenze avvengono anche qui dato che i ruoli stabiliti dal privilegio culturale, sociale e politico, non restano ad aspettare, obbedienti, fuori dal cancello.

Il giorno della manifestazione per Lesvy Berlín Osorio varie delle partecipanti hanno deciso di mettere la rabbia per iscritto ricoprendo le grosse lettere di plastica che, nei pressi dell’edificio del Rettorato, recitano #HechoEnCU (una buona traduzione sarebbe: “made in UNAM”). Quasi d’immediato una grossa parte della comunità universitaria, assente all’ora di manifestare contro l’assassinio della loro coetanea, si è sollevata protestando con veemenza contro “il vandalismo” delle femministe. Uniti nell’hashtag #IbuoniSiamoDiPiù, molti giovani volontari sono accorsi per ripulire il “patrimonio” vilipendiato, ossia le grosse lettere di plastica, dicendosi offesi per le azioni violente e senza rispetto delle manifestanti. Le lettere hanno presto riacquistato il loro aspetto originale: la loro materialità glielo permette. Non succede lo stesso ai corpi violentati, degradati, offesi.
Anche nel caso Perelló non sono mancate le voci solidarie che hanno invocato la libertà d’espressione, accusando di censura la sospensione del programma Sentido Contrario: non importa che Perelló abbia silenziato con il suo linguaggio violento l’esperienza delle donne, revittimizzandole e degradandole a routa libera per ore.

Anche se suona scoragginate dirlo, il fatto che anche nella “massima casa di studi” tanti abusi vengano sistematicamente invisibilizzati non sorprende più di tanto. Ciò non significa che deve sembrarci normale o inevitabile. È grave, invece: gravissimo. Perché se allunghiamo lo sguardo fuori dalla porta ci affacciamo all’orrore.
In Messico vengono assassinate sette donne ogni giorno; è un paese in cui moltissime giornaliste, attiviste e femministe vengono minacciate nei social da orde di trolls che promettono di ammazzarle o stuprarle e che inviano fotografie di corpi di donne sventrate per seminare panico e per silenziare, ancora una volta, le voci scomode che criticano lo status quo. Il Messico è un paese in cui moltissime famiglie continuano a cercare ii propri cari scomparsi: migliaia di desaparecidas e desaparecidos che abbondano sempre più di fronte alla passività complice dello Stato.

L’impunità riprodotta all’interno degli spazi universitari o la priorità data a delle lettere, o a dei muri, imbrattate con degli slogan non fanno che riprodurre e legittimare ognuna di queste violenze.
La voce di Araceli Osorio si mantiene solida di fronte alle decine di manifestanti; non riesco a non notare l’immediatezza con cui coniuga i verbi al passato quando parla di sua figlia Lesvy. Lo noto e mi dà i brividi: perché le sue parole -come lei stessa afferma- sono soprattutto parole di indignazione. Ho l’amaro in bocca: quello che è successo sembra non sorprenderla completamente perché prevale la sua consapevolezza di star vivendo in un paese squassato, perverso. “Il mio orrore è una goccia minuscola in un oceano di orrori”, dice, e la sua lucidità colpisce come un pugno alla bocca dello stomaco.

“Quanto vorrei essere un muro: così ti indignerai se mi toccano senza permesso” slogan scritto sul cartello di una manifestante

 

articolo tratto da Carmilla – Galleria fotografica a questo link (foto di Caterina Morbiato e Roberta Granelli)

* Caterina Morbiato è antropologa alla UNAM-Messico e collaboratrice di Carmilla