Latinoamerica

L’America Latina in resistenza un anno dopo l’omicidio di Berta

di Christian Peverieri

Ancora una volta ci troviamo a celebrare l’anniversario della morte di una persona speciale, una compagna con la C maiuscola che troppo presto ci hanno portato via: Berta Caceres. Ancora una volta però questo anniversario si trasforma in una giornata di lotta globale (qui tutte le iniziative dell’Accíon Global): non si tratta solo di ricordare ed onorare chi è assente, ma di ribadire a tutto il mondo che questo sacrificio non sarà vano e che il suo brutale omicidio non ci farà arrendere.

Noi siamo dalla parte della vita, siamo dalla parte della dignità per tutte e tutti. Siamo per un mondo in cui non ci sia bisogno di eroi. Faremmo volentieri a meno di celebrare la nostra compagna Berta e tutti gli altri attivisti assassinati. Siamo per la vita, per questo affrontiamo la morte con la forza, la speranza e la lotta: per sconfiggerla. È per questo che difendiamo i diritti di tutte e tutti, è per questo che ci sentiamo fratelli di chi costruisce un mondo più giusto. È per questo che camminiamo fianco a fianco con chi fugge da guerre e dolore. È per questo che odiamo chi porta la morte nelle nostre case, nelle nostre comunità e ovunque abbiamo fratelli e sorelle.

La morte, così come la intendiamo noi, ha molteplici volti e non solo arriva troppo spesso a strappare direttamente la vita, ma agisce su più fronti: respingendo e negando i diritti dei migranti, costruendo muri alle frontiere, sfruttando e spoliando territori, restringendo progressivamente i diritti per tutti i cittadini, violando i diritti umani e legittimando dall’alto pratiche di violenza e subalternità delle donne. Tutti elementi imprescindibili di un sistema economico, il capitalismo, che in America Latina si traduce nell’estrattivismo che fagocita la terra, i diritti e la vita; così come è successo esattamente un anno fa, il 3 marzo 2016, a Berta Caceres, quando la mano infame di sicari senza scrupoli le ha tolto la vita nel più vile dei modi: sparandole a casa sua. In un tentativo ignobile di uccidere anche i suoi sogni colpendola nell’intimità del luogo dove si allentano le pressioni, ci si rilassa, ci si sente al sicuro, ci si rifugia tra i sorrisi di parenti e amici.

Un anno dopo siamo ancora qua, con l’urgenza di raccontare e ricordare la sua storia. Perché nonostante gli esecutori materiali siano stati arrestati, i mandanti politici sono ancora lì fuori, senz’altro pronti a ripetere il delitto nei confronti del prossimo che oserà opporsi ai loro disegni criminali. Perché l’arresto di chi ha partecipato materialmente all’omicidio di Berta non mette fine a questa ingiustizia. Ingiustizia è il sistema, che continua a mietere vittime, a distruggere gli ecosistemi, a maltrattare i migranti, a sfruttare le persone.

Il 2016 è stato sicuramente un anno di lotta tra i più caldi in assoluto in America Latina. Dall’esplosivo Messico dei maestri e di Ayotzinapa, al Venezuela della crisi perpetua, dalle rinate manifestazioni argentine contro il nuovo governo imperialista di Macri, alle proteste degli studenti brasiliani e cileni. Soprattutto, sempre più sono le azioni di resistenza delle piccole comunità indigene del “continente desaparecido” a prendere voce. Come i pescatori di Chiloé, in Cile, capaci di far scendere a compromessi la Presidente Bachelet per difendere le loro isole dall’inquinamento provocato dall’industria “salmonera” oppure gli stessi Lenca in Honduras, che da un anno non solo continuano a chiedere giustizia per Berta, ma continuano nella loro lotta contro la costruzione di una diga nel rio Gualcarque; o ancora gli innumerevoli popoli delle Ande che resistono alle concessioni minerarie nelle loro terre, come nel caso divenuto famoso di Maxima Acuña in Perù. Senza ovviamente dimenticarsi degli indigeni zapatisti del Chiapas ritornati alla ribalta con la decisione di candidare, insieme al CNI una donna indigena alle elezioni messicane del 2018, e dei Mapuche in Patagonia, che continuano a resistere alla vigliacca repressione di ben due governi, quello argentino e quello cileno che proteggono gli interessi milionari di multinazionali senza scrupoli tra lei quali Benetton. L’elenco è lungo, si può continuare raccontando del pueblo Shuar in Ecuador, in resistenza contro il governo “illuminato” di Correa che vuole far costruire una miniera nelle loro terre ancestrali; ci sono poi i Wirikuta, anch’essi alle prese con le concessioni minerarie governative nelle terre sacre e ancestrali.

Focolai di rivolte piccole, ma assolutamente interessanti perché mostrano la nuova via latinoamericana per la costruzione di un’alternativa reale al capitalismo: resistenza, organizzazione, autonomia. Dopo una decade di governi progressisti, infatti, la strada della conquista e della gestione del potere si può considerare fallita e questo perché, semplicemente, a governare un sistema di destra, c’è poco da fare, sono più bravi quelli di destra. Il risultato è appunto visibile nella perdita di consensi nelle varie tornate elettorali del continente da parte delle sinistre, ma soprattutto da queste piccole esperienze di rivolte dei popoli che hanno deciso di prendere il mano il proprio futuro, rifiutando l’inutile delega della rappresentanza istituzionale.

Questa nuova fase ha portato con sé una ripresa degli attacchi, troppo spesso mortali, contro gli attivisti sociali ed ambientali. Se n’è accorta perfino l’ONU, che in un report di alcuni mesi fa dichiarava quanto fosse pericoloso fare l’attivista nel continente. Un rapporto simile d’inizio anno di Global Witness ha invece dimostrato come l’Honduras sia il paese più pericoloso al mondo per chi difende diritti umani e ambientali: dal 2010 oltre 120 attivisti sono stati assassinati per essersi opposti alle multinazionali che come moderni colonizzatori accaparrano la terra e devastano l’ambiente.
Purtroppo questi report e nemmeno l’assegnazione di premi importanti come il Goldman Prize sono ormai sufficienti a garantire la sicurezza degli attivisti. Il 2016 è stato un anno nefasto, che ha portato all’omicidio di 217 attivisti in tutto il continente; secondo il report dell’organizzazione umanitaria Frontline Defenders, di questi 217 assassinii, ben 85 sono avvenuti in Colombia, 58 in Brasile, 33 in Honduras, 26 in Messico, 12 in Guatemala, 1 in El Salvador, Perù e Venezuela. Il 2017 non promette nulla di buono, infatti si è aperto con una serie impressionante di omicidi politici che riflette un trend negativo a crescere davvero preoccupante in questi ultimi tre anni. Tra questi, un altro vincitore del Goldman Prize, il messicano Isidro Baldenegro è stato ucciso da “ignoti” poche settimane fa. I dati parlano chiaro: dall’inizio dell’anno ad oggi sono stati uccisi 29 attivisti. Tra questi un elevato numero proviene dalla Colombia che, a onor del vero, merita un discorso a parte.
Tra le tante sconfitte delle sinistre latinoamericane per molti c’è infatti anche la resa delle FARC e il loro desiderio di raggiungere la pace con il governo colombiano dopo oltre 50 anni di lotta armata. Un primo accordo è stato rigettato inaspettatamente da un referendum voluto dal presidente Santos per siglare il suo trionfo. Le parti in causa tuttavia non si sono arrese ed hanno stipulato un nuovo accordo a dicembre che prevede tra le altre cose che le FARC consegnino le armi. Dall’inizio dell’anno gli omicidi di attivisti politici e ambientali sono ripresi in larga scala ed al momento si contano 25 vittime che non sono casi isolati come il governo vorrebbe far credere, ma che rappresentano una preoccupante ripresa dell’attività paramilitare nelle zone più povere e dove il conflitto non si è evidentemente risolto con la decisione delle parti di raggiungere la pace.

Il laboratorio repressivo messo in atto tanto dalle destre reazionarie e neoliberiste quanto dai governi progressisti si può sostanzialmente riassumere così: sulle risorse naturali, l’oro del 21° secolo, decidono i poteri forti finanziari, in spregio totale dei diritti umani e della salvaguardia dell’ambiente. Chi si oppone, chi resiste, chi non si arrende viene spazzato via ad ogni costo, anche a costo della vita. Naturalmente ci sono sostanziali differenze per esempio tra Juan Orlando Hernandez (presidente dell’Honduras, a capo di un governo golpista e reazionario) e Daniel Ortega (presidente del Nicaragua, sandinista), nel modo in cui queste politiche estrattiviste vengono attuate; quello che non cambia è la volontà di sfruttare i territori (o l’incapacità o l’impossibilità di opporsi realmente e radicalmente a questo) e di lasciare campo aperto al capitalismo selvaggio.

Stante questa situazione, non resta che osservare con attenzione il susseguirsi degli eventi, ben consci del fatto che la tanto acclamata via della presa del potere in America Latina ha fallito e che per i movimenti si apre ora una nuova, e forse più interessante fase, che potrebbe essere fonte di ispirazione per i movimenti globali. Si tratta, come detto in precedenza e seguendo l’esempio delle comunità indigene zapatiste e non solo, di recuperare la capacità di organizzarsi, ognuno nella propria comunità, nella propria città, nel proprio quartiere, e di costruire dal basso percorsi reali e radicali di autonomia in difesa dei diritti umani e dell’ambiente; percorsi che non mirino alla presa del potere, ma a costruire una società nuova dove tornino ad avere peso parole come accoglienza, diritti, solidarietà, umanità. Più che un lavoro politico, è un lavoro culturale: non sarà una passeggiata e non sarà breve, ma è arrivato il momento di agire. Come disse Berta, alla premiazione del Goldman Prize: “Despertamos humanidad, ya no hay tiempo”